venerdì 15 aprile 2011

Maria

Trovo difficoltà nel comprendere le cure e le attenzioni che gli essere umani si riservano nei momenti più difficili della loro vita. Le comprendo, le capisco e potrei ammettere pure di condividerle, a patto di capirne il perché dell’eccezionalità.
Ero piccolo o meglio non ero ancora tanto grande da capire il significato della morte di un padre che perché era nonno. Ho assaggiato il dolore del percorso che, col sennò di poi, ha permesso di vivere come liberazione il momento.
Oggi mi trovo ad entrare in una casa nella quale due fratelli di cinquant’anni convivono con il loro padre, mentre la sorella più grande è ad assistere la madre.
Ho osservato e subìto l’assoluta incapacità di decidere di un marito che ha visto sdoppiarsi la propria vita in sessant’anni di matrimonio.
Ho osservato la lucidità mia, di mio fratello e di mia cognata nell’analizzare la situazione. Ho mentito cercando di dir la miglior verità possibile.
Per anni ho sentito mamma arrabbiarsi, sbattersi, piangere per un affetto che i propri genitori non le hanno mai riservato. Per gli stessi anni l’ho vista prodigarsi, correre, non dormire, spaventarsi e preoccuparsi per quegli stessi genitori. L’ho vista non commettere gli stessi errori. L’ho difesa, cercando alla fine di far ciò che più le stava a cuore, sentirsi una buona figlia. Non è la morte a darmi pensiero. L’impotenza di tutti sull’evento porta a volermi concentrare sugli effetti. Ho vissuto tutto ciò anni fa. Con la crescita alcune paure son venute meno, altre sono scomparse. Vedo mio fratello, futuro padre, preoccuparsi di come poter parlare con la nostra, di madre. Chiedere consiglio a me, come se io avessi un modo. Io un modo non c’è l’ho. Non ho neppure una soluzione. Ho la certezza del calore che sento. Mi piace la mia famiglia, con tutti i difetti annessi.